Sam-Slide Sam-Slide REDAZIONE CULTURALE

                                                                           !  Scrivi al Redattore  !  Torna al Sommario  !  Torna alla Home Page !
 
  Sam-Slide

       

 

 

 

CHE COSA SCATTA NELLA MENTE DI CHI SI UCCIDE PER UCCIDERE?

           

AL MACELLO PER ODINO

Elmo vichingo. Questo popolo aveva un gruppo di guerrieri suicidi, i "Berserker" votati alla morte in battaglia in onore di Odino,

Per visionare le note esplicative nel testo, è sufficiente passare il mouse sopra la parola e attendere. Il tempo di apertura è strettamente legato al tipo di collegamento di cui disponete.


Sansone... Uno dei primi kamikaze

" Uccidendosi, sterminò 3000 Filistei"

 

di Vittorio Di Giuro

[...] utilizzò la forza per abbattere i pilastri del tempio  [...]

Nel libro dei Giudici (così chiamato perché riferisce gli eventi connessi con i reggenti temporanei di Israele detti "giudici") Libro dell'Antico Testamento si narra di Sansone, il quale era il dodicesimo giudice delle tribù di Israele (Giudici 13-16), figlio di Manoach e di Zorea, appartenente alla tribù di Dan. Zorea era sterile, ma le apparve un angelo che le promise un figlio comunicandole che sarebbe stato un nazireo, ovvero una persona consacrata al servizio di Dio. Secondo la tradizione, grazie alla straordinaria forza fisica conferitagli dai capelli Sansone compì le sue gesta, tra le quali l'uccisione a mani nude di un leone e il massacro di mille filistei armato del solo scheletro di una mascella d'asino. Venne tradito a Gaza da una filistea, Dalila, che dopo averlo sedotto scoprì il segreto della sua forza e gli tagliò i capelli nel sonno, consegnandolo ai filistei che lo accecarono e lo resero schiavo. In seguito, durante una festa, Sansone venne esibito in pubblico (Giudici 16:23-30) ma, poiché nel frattempo gli erano ricresciuti i capelli, utilizzò la sua forza per abbattere i pilastri del tempio che crollò, travolgendo lui e i 3000 filistei presenti.
Il libro dei Giudici è diviso in tre sezioni, in cui vengono narrati la conquista israelitica di Canaan cominciata con la morte di Giosuè e gli episodi in cui i figli di Israele furono più volte salvati da aggressioni straniere da un eroe o un'eroina divenuti loro difensori. Questi salvatori, che sono Otniel, Eud, Debora, Gedeone, Iefte e Sansone, non vengono chiamati "giudici" nel testo, benché siano perlopiù "salvatori" e "liberatori" e la maggior parte di essi si presenti solo parzialmente come vero e proprio giudice. Compaiono anche brevi riferimenti alle imprese dei sei eroi minori e nella parte finale si raccontano la migrazione della tribù di Dan e una guerra di diverse tribù contro quella di Beniamino, cominciata con la violenza dei beniaminiti alla concubina di un levita.
Il libro dei Giudici ha anche un grande valore storico come fonte per determinare eventi e assetto sociale del periodo intercorso tra la conquista israelitica di Canaan e l'epoca di Samuele. È inoltre impreziosito dalla presenza di alcuni notevoli frammenti letterari.

 

Psicologia del kamikaze

 

a cura di

Massimo Polidoro

 

con la collaborazione di

Riccardo Tonani

 

Il guerriero suicida non nasce coi giapponesi, né col fondamentalismo religioso. Dall'eroe che s'immola contro il nemico al terrorista che porta con sé persone inermi.

[...] I 300 spartani che morirono alle Termopoli (in una tela di Jacques Luis David) si "suicidarono"; ritirata e prigionia non erano previste nel loro codice d'onore [...]

 Per quanto possa sembrare strano  a inventare la strategia dei kamikaze (anche se allora non erano chiamati così) non sono stati né i giapponesi né i fondamentalisti islamici. Il suicidio militare ha radici antiche e diffuse in tutto il mondo, non esclusa l'Italia. Il più antico guerriero suicida di cui sia abbia notizia certa fu infatti un romano , il console Decio Mure, che nella battaglia del Sentino ( 295 a.C.), contro una coalizione d'Etruschi, Galli e Sanniti, si lanciò contro il nemico e si fece uccidere per trascinare con se gli avversari e consentire una manovra diversiva ( e vittoriosa) alle proprie truppe. Viceversa, durante la rivolta nella Palestina nel i secolo d.C. le truppe romane dovettero affrontare anche una fanatica e intransigente setta ebraica, quella degli Zeloti. Durante l'assedio della loro roccaforte, la fortezza di Masada, gli Zeloti si sacrificarono fino all'ultimo uomo in attacchi suicidi contro i legionari, per non essere ridotti in schiavitù. E coloro che non riuscirono a morire in battaglia si uccisero con le proprie mani.

Soldati cane

 

 

di Massimo Centini

[...] Pietro Micca salvò Torino dall'assedio francese facendo saltare con una mina la galleria d'accesso alla cittadella e morendo egli stesso sotto il crollo [...]

Anche nel mondo nordeuropeo cerano guerrieri suicidi. Tra i Celti piccoli gruppi di combattenti, devoti alle divinità della guerra, bevevano e si drogavano prima dello scontro armato, per poi lanciarsi completamente nudi, dipinti di blu e armati di una spada lunga, in attacchi suicidi contro le prime file avversarie, tentando di sfondare lo schieramento. Così, tra i Longobardi, cosiddetti "cinocefali", invasati dal culto del dio Wotan, combattevano fino alla morte, indossando una maschera col muso di cane. Anche nelle pianure americane, tra i pellerossa, esistevano guerrieri che seguivano un codice d'onore basato sul coraggio in battaglia, fino all'estremo.

 

 

Erano i dog soldiers ("soldati-cane"), delle tribù Sioux e Cheyenne. Andavano in guerra con un palo, che piantavano sul luogo e a cui si legavano con una lunga fascia; qui rimanevano combattendo, fino alla vittoria o alla morte. Ma gli esempi di sacrificio in battaglia non mancano in ogni epoca. Per restare in Italia c'è l'esempio di Pietro Micca, che nel 1706, durante la guerra di successione spagnola, salvò Torino dall'assedio francese facendo saltare con una mina la galleria d'accesso alla cittadella e morendo egli stesso sotto il crollo. In questo caso però, come in altri episodi d'eroismo, l'obiettivo di chi compie il gesto non è il suicidio. Si sceglie la morte solo perché non ci sono altre vie per difendere un principio superiore (la patria, altre vite umane ed altro).

 

 

Vento divino

 

(Giappone, 1944)

 

[...]  Ai kamikaze giapponesi si diceva che le loro anime avrebbero trovato posto nel tempio sacro di Yasukuni. [...]

Il termine kamikaze (significa "vento divino") deriva dai piloti giapponesi* che, durante la seconda guerra mondiale, si sacrificarono gettandosi con i loro aerei sugli obiettivi avversari. La prima azione fu condotta il 5 luglio 1944 con 17 aerei contro la Quinta flotta U.S.A. L'esito per gli attaccanti fu disastroso: oltre metà degli aerei abbattuti, gli altri costretti a rientrare. Il 15 ottobre 1944 il contrammiraglio Aima, comandante della XXVI^ flottiglia aerea di base a Manila, condusse da solo, fallendo, un attacco suicida contro la task force 38. Il suo esempio fu contagioso e decine di piloti giovane ed anziani decollarono per non più tornare, suicidandosi nella lotta contro la Terza e la Settima flotta americane che assediavano le Filippine.

* Il termine deriva esattamente dal nome del tifone che nel 1281 distrusse la flotta mongola che tentava l'invasione del Giappone. Nella battaglia di Iwo Jima, seconda guerra mondiale, combattuta sul fronte del Pacifico nel febbraio-marzo del 1945 per il controllo dell'isola di Iwo Jima, importante base strategica che avrebbe fornito alle forze aeree statunitensi un punto d'appoggio da cui attaccare il cuore del Giappone industriale. Prima dell'invasione, avvenuta il 19 febbraio, l'isola fu sottoposta a tre mesi di bombardamenti continui. Il 23 febbraio i Marines occuparono il monte Suribachi, il più alto dell'isola, postazione difensiva strategicamente fondamentale. L'operazione si concluse il 16 marzo, dopo un mese di combattimenti accaniti in cui persero la vita più di 6000 Marines statunitensi e circa 20.000 soldati giapponesi.

Nota a cura di Vittorio Di Giuro

 

   è disperazione, non follia!

lo dicono gli esperti

 

è però nelle tradizioni di violenza sacrificale nel Medio Oriente che possiamo rinvenire le origini di alcune caratteristiche presenti anche negli ultimi episodi di suicidio dei fondamentalisti islamici. «è una tradizione che precede la nascita dell'Islam» dice lo studioso inglese di questioni medio-orientali James Buckan. «Ha quattro caratteristiche: il rifiuto totale del mondo, il disprezzo per la propria vita, una convinzione onnipotente d'essere dei prescelti divini e una vistosa adorazione per la spettacolarità». Questa tradizione raggiunse un picco nel Medioevo, con la setta estremista e terrorista musulmana degli Assassini (in arabo significa "dediti all'hashish"). Gli adepti obbedivano ciecamente al capo politico-religioso, detto il Vecchio della Montagna. In cambio della promessa di partecipare alle delizie dei giardini di Allah, questi killer, inebriati anche da droghe, partivano per spedizioni suicide.

 

   Carichi d'odio

Ma che cosa succede nella mente di chi fa una scelta tanto folle come quella di distruggere la propria vita e quella di decine, centinaia se non addirittura, come nel caso degli attentati dell'11 settembre a News York e Washington, migliaia di persone innocenti? «Non si tratta d'individui mentalmente anormali, non sono psicopatici o psicotici, né è stato fatto loro il lavaggio del cervello» dice lo psicologo inglese Andrew Silke dell'Università del Leicester, esperto nella psicologia degli attacchi suicidi. «Sia i kamikaze giapponesi sia i fanatici islamici contemporanei» continua Silke  « nutrono un odio per gli U.S.A., una superpotenza mondiale che, ai loro occhi, minaccia le loro radici, la loro cultura e la loro religione. Ad entrambi era ed è promesso il martirio e benefici tangibili nell'aldilà. Ai kamikaze giapponesi si diceva che le loro anime avrebbero trovato posto nel tempio sacro di Yasukuni. Ai volontari islamici, oggi, si racconta che si risveglieranno in paradiso, circondati da 72 vergini disposte a soddisfare ogni loro desiderio». Solo un mese prima dell'attacco agli U.S.A. la Bbc riferiva che la Jihad islamica aveva aperto una "scuola estiva" per martiri, dove s'insegna a ragazzi tra i 12 e i 15 anni non solo che è bene uccidere, ma anche che è bene morire. «Insegniamo che le bombe suicide sono la sola cosa che veramente spaventa gli israeliani. Inoltre spieghiamo che abbiamo diritto di fare questo e che dopo l'attacco suicida il martire che l'ha compiuto va al più alto livello del paradiso» diceva uno dei "maestri".

 

[...] Insegniamo che le bombe suicide sono la sola cosa che veramente spaventa gli israeliani. Inoltre spieghiamo che abbiamo diritto di fare questo  [...]

«Né i kamikaze né i terroristi islamici sono pazzi» spiega Silke. «Sono semplicemente arrabbiati, disperati e fermamente decisi». La disperazione, dunque, è quasi sempre una delle cause di atti così terribili. I giapponesi, non a caso, decisero di ricorrere alla tattica del kamikaze solo quando diventò chiaro che stavano perdendo la guerra. E la disperazione creata dalle campagne militari contro popoli musulmani in Bosnia, Albania, Cecenia, Iraq e Palestina potrebbe spiegare perché in molti paesi islamici il terrorismo suicida possa essere considerato un sistema di difesa praticabile, nonostante il Corano affermi che chi si toglie la vita finisce all'inferno.

 

   Kamikaze al contrario

 

Anche persone pacifiche sono arrivate a sacrificare se stesse per disperazione. Ma il loro gesto era di tutt'altro genere: volevano sì sollevare un problema, segnalare un'ingiustizia, ma a differenza dei kamikaze, non miravano a distruggere bersagli militar né, a differenza dei terroristi, ad uccidere innocenti: nel 1963 per contestare le repressioni antibuddiste del governo vietnamita, alcuni bonzi buddisti decisero di attirare l'attenzione mondiale con un gesto tragico. Poiché non potevano dimostrare violentemente, in quanto la regola religiosa lo proibisce, si diedero fuoco. E nel 1969, a Praga, lo studente Jan Palach, sull'esempio dei bonzi, si cosparse di benzina e si diede fuoco per protestare contro l'occupazione sovietica.

 

TRE RAGIONI PER MORIRE

 

Analizzando tutti i casi storici in cui ha fatto la sua comparsa la figura del guerriero suicida, si possono identificare essenzialmente tre famiglie di kamikaze:

1. IN NOME DI UNA SOPRAVVIVENZA SUPERIORE

è il caso dei kamikaze giapponesi ma anche quello espresso dal fanatismo islamico: il guerriero è disposto a morire per garantire la sopravvivenza alla sua nazione o alla sua fede religiosa: un valore considerato " più alto" della vita. Spesso c'è anche la promessa di una ricompensa divina in una vita futura.

2. IN NOME DI UNA AUTORITA' SUPERIORE

Il suicida è plagiato da una figura carismatica (per esempio il Vecchio della Montagna): viene convinto che l'obbedienza agli ordini è un valore superiore alla vita stessa. Con lo stesso meccanismo psicologico si possono spiegare anche alcune atrocità compiute dalle forze armate di regimi didattoriali. Spesso, per tacitare l'istinto di sopravvivenza, chi "obbedisce" fa ricorso a droghe.

3. IN NOME DI UN PRINCIPIO MORALE SUPERIORE

è il caso dei samurai che si suicidano per difendere l'onore, o di chi si da fuoco per protestare contro l'autorità. Ma anche quello dei guerrieri, come i " dog soldiers", che si votano al combattimento estremo: non necessariamente vogliono morire, ma sono disposti a farlo. è un atteggiamento che si può sviluppare solo in presenza di un rigido codice morale.

M.G.

 

Il suicidio nella storia

 

di Vittorio Di Giuro

 

L'atto di darsi la morte, ricorrente in ogni società fin dai tempi più antichi. La considerazione di tale gesto è mutata nei secoli quanto la frequenza del gesto stesso e le sue modalità di attuazione. Gli antichi filosofi greci consideravano il suicida un disertore dalla vita, e la legislazione ateniese ne esponeva pubblicamente la salma al vilipendio della cittadinanza. L'influenza dello stoicismo indusse gli antichi romani a considerare il suicidio un'azione legittima, talvolta ritenuta degna d'onore. Per Seneca era espressione di estrema libertà. La religione ebraica negava invece al suicida gli onori funebri, mentre fin dalle origini il cristianesimo lo condannò. Nel Medioevo cristiano si confiscavano addirittura i beni dei suicidi, e alle loro salme veniva negata una degna sepoltura. Ancora oggi il cristianesimo, l'ebraismo e l'Islam condannano il suicidio.
In alcuni casi, invece, questo atto assume una funzione rituale. In Giappone, ad esempio, fino alla metà del XX secolo, chi si riteneva colpevole di un torto o veniva meno ai propri doveri praticava l'harakiri, il suicidio rituale, squarciandosi il ventre con una lama, secondo una cerimonia consolidata dalla tradizione. In India, invece, fino all'Ottocento veniva considerato un dovere il suttee, crudele rito in cui le vedove erano arse vive con i cadaveri dei loro mariti durante la cerimonia della cremazione. Nel 1897 Emile Durkheim propose di analizzare il suicidio come fenomeno sociale oltre che come atto individuale, e lo classificò in tre tipologie (suicidio egoistico, altruistico e anomico), ciascuna delle quali determinata da precisi fattori.

 

Suggerimenti   !   Segnalazioni errori   !   Invia un articolo   !   Segnala un argomento   !   Scrivi al Redattore   !   Torna al Sommario   !   Torna alla Home Page  !  

 
Redazione Sportiva Culturale

© 1990 www.artemarziale.org
Sam Delmai Web Master